Per tattiche della fanteria romana si intendono non solo un'analisi storica
della sua evoluzione, ma anche quali manovre la fanteria mise in atto, dall'inizio della sua
fase regia, poi repubblicana ed imperiale, fino alla caduta dell'Impero romano d'Occidente. Ciò
risulta tanto più interessante se confrontato con le diverse tipologie di nemico, che l'esercito
romano incontrò nei diversi secoli della sua esistenza.
La tattica mutò notevolmente nei dodici secoli di storia romana, che qui sotto ci apprestiamo ad
analizzare. Basta ricordare che Roma nell'VIII secolo a.C. era uno dei tanti e piccoli villaggi
che popolavano il Latium vetus e sotto Augusto occupava ormai tutti i territori intorno al
bacino del Mediterraneo. È evidente che la struttura militare del suo esercito e la conseguente
tattica, mutarono insieme alle conquiste che via via ne ampliarono i territori inglobati,
influenzata dalle tendenze politiche, sociali ed economiche di cui la città si arricchiva, ed ai
popoli che a Roma "regalavano" di volta in volta le loro conoscenze belliche.
Roma fu molto abile nell'assorbire il meglio delle differenti tattiche, degli armamenti e
dell'organizzazione militare, dei suoi nemici, con i quali si scontrò nei secoli (dall'VIII
secolo a.C. al V secolo d.C.). Essa si adattò in modo estremamente flessibile e rapido, grazie
al forte senso di disciplina che la società romana imponeva al proprio miles ed alla ferrea
volontà di cercare di perseguire ad ogni costo la vittoria completa, a volte senza mediazioni o
senza farsi grossi scrupoli.
Le tecniche di questo periodo erano molto simili a quelle di altri popoli
italici, in particolare ai Latini, di cui Roma faceva parte, e non dovevano essere di sicuro
migliori di quelle utilizzate nella vicina Magna Grecia. Al contrario, si trattava di un
combattimento semplice ma violento, non particolarmente ordinato, tra poche centinaia di uomini
dei vicini villaggi, che poteva durare anche pochi minuti, difficilmente alcune ore. Vi era
poi la consuetudine di lanciare un potente grido di guerra per intimorire l'avversario, prima
dello scontro, come del resto in tutto il mondo antico. A ciò si aggiunga il fatto che
spesso, sempre per scoraggiare il nemico, venivano battute le aste o le spade contro gli scudi
generando un grande fragore.
Ora sulla base dei recenti ritrovamenti archeologici si è potuto notare che il primo esercito
romano, quello di epoca romulea, era costituito da fanti che avevano preso il modo di combattere
e l'armamento dalla civiltà villanoviana della vicina Etruria. I guerrieri combattevano
prevalentemente a piedi con lance, giavellotti, spade (con lame normalmente in bronzo, ed in
rari casi in ferro, della lunghezza variabile tra i 33 ed i 56 cm), pugnali (con lame di
lunghezza compresa tra i 25 ed i 41 cm) ed asce, mentre solo i più ricchi potevano
permettersi un'armatura composta da elmo e corazza, gli altri una piccola protezione
rettangolare sul petto, davanti al cuore, delle dimensioni di circa 15 x 22 cm. Gli scudi
avevano dimensioni variabili (comprese tra i 50 ed i 97 cm) e di forma prevalentemente
rotonda (i cosiddetti clipeus, abbandonati secondo Tito Livio attorno alla fine del V secolo
a.C.) atti ad una miglior maneggevolezza. Plutarco racconta, inoltre, che una volta uniti
tra loro, Romani e Sabini, Romolo introdusse gli scudi di tipo sabino, abbandonando il
precedente di tipo argivo e modificando le precedenti armature.
Il combattimento, in verità, prevedeva, sulla base delle tradizioni omeriche, una serie di
duelli tra i "campioni" dei rispettivi schieramenti, in genere tra i guerrieri più nobili,
dotati di maggior coraggio e abilità (vedi ad esempio l'episodio tramandatoci degli Orazi e
Curiazi), equipaggiati con il miglior armamento. I patrizi ed i loro clienti più ricchi,
combattevano in prima linea, i soli a potersi permettere armature, scudi, spade, elmi di
qualità, oltre ad una cavalcatura (da cui smontavano, prima dello scontro). I più indigenti, non
potendo permettersi a protezione del proprio corpo nessuna armatura completa (a volte solo una
piastra di cuoio o bronzo, davanti al proprio petto), ma solo scudi in legno, venivano schierati
nelle file più arretrate. I più poveri, dotati di sole armi da lancio, come giavellotti e
fionde, o anche rudimentali scuri, erano invece utilizzati all'inizio dello scontro, per
provocare e disturbare il nemico schierato con continui e fastidiosi lanci di proiettili da
lontano, oppure all'inseguimento del nemico in fuga, dopo uno scontro vittorioso.
L'esercito di Romolo, descritto da Tito Livio, potrebbe essere stato, quindi, un'anticipazione
di quello di epoca successiva di Servio Tullio. Secondo Livio, infatti, sarebbe stato
Romolo a creare, sull'esempio della falange greca, la legione romana, formata da 3.000 fanti
e 300 cavalieri. La legione si disponeva su tre file, con la cavalleria ai lati. Ogni
fila di 1.000 armati era comandata da un tribunus militum, mentre gli squadroni di cavalleria
erano alle dipendenze dei tribuni celerum.
Tito Livio racconta di una forma particolare di ordine di marcia dell'esercito
romano in territorio nemico: si trattava del cosiddetto agmen quadratum, dove in testa ed in
coda c'erano le due legioni consolari, ai lati le ali dei socii, al centro i bagagli di tutte le
quattro unità menzionate (ovvero gli impedimenta delle legio I e II oltre a quelli delle due
ali). Tale ordine di marcia fu utilizzato fin dall'inizio della Repubblica, menzionato anche
durante le guerre sannitiche, la guerra annibalica, la guerra giugurtina, e la
battaglia di Carre.
Con l'occupazione di Roma da parte degli Etruschi e la successiva riforma di Servio Tullio, il
nuovo esercito, di stampo quindi etrusco-greco, fu reclutato tra i cittadini romani secondo il
loro ceto sociale: di conseguenza, composizione, equipaggiamento e aspetto delle singole file,
potevano variare molto tra le cinque differenti "classi" sociali. Le formazioni armate
comprendevano sia corpi di opliti (fanteria pesante), sia di truppe leggere (velites) e di
cavalleria.
Gli opliti della prima fila formavano un "muro di enormi scudi rotondi" parzialmente
sovrapposti, in modo che il loro fianco destro venisse protetto dallo scudo del vicino
commilitone. Sostenevano un addestramento costante ed il maggior peso del combattimento, che
effettuavano in modo estremamente compatto, armati di lancia e spada, difesi da scudo, elmo e
corazza (o comunque con una protezione pettorale).
Considerato la loro esiguità numerica, si può pensare che combattessero
affiancati da guerrieri con gli stessi compiti, ma con armamento e protezioni minori. Lo
scudo di grandi dimensioni dava la maggior protezione al corpo: poteva essere rotondo in bronzo
con due maniglie (di tipo argivo) oppure rettangolare con bordi arrotondati e rinforzo verticale
centrale (a modello celtico o italico). L'elmo di bronzo poteva avere o meno la cresta ed era
inizialmente di tipo villanoviano, con la famosa cresta metallica, o di tipo Negau a morione;
successivamente si usarono elmi a campana e, a seguito dei contatti con le città greche, di tipo
calcidese (con paraguance e paranuca e le orecchie scoperte), corinzio (a copertura quasi
totale, con paranaso ed una sola fessura centrale per gli occhi e parte della bocca) ed
etrusco-corinzio (senza paranaso e con apertura leggermente più aperta. La protezione alle gambe
era possibile dotandosi di schinieri di bronzo, e quindi era disponibile solo per gli opliti
armati più pesantemente.
Le truppe leggere comprendevano fanti leggeri e tiratori e dovevano provocare il nemico,
disturbarlo e disorganizzarlo prima dell'urto degli opliti. I fanti leggeri erano armati di
giavellotti, difesi da uno scudo rotondo, indossavano un elmo ma non usavano corazza né piastre
pettorali. I tiratori potevano essere arcieri o frombolieri e portavano al fianco una piccola
spada, pugnale o coltello per la difesa personale, ma non avevano alcuna protezione. Vanno anche
ricordati gli ascieri, che operavano insieme agli opliti con il compito di tagliare le lance
della formazione avversaria: essi usavano inizialmente un'ascia ad una mano nel periodo
villanoviano, per poi passare a quelle a due mani ad un taglio o bipenni. La loro protezione era
affidata ad un elmo e a qualche forma di protezione pettorale, piastre o corazze.
La cavalleria si basava sulla mobilità e aveva compiti di avanguardia ed esplorazione, di
scorta, nonché per azioni di disturbo o di inseguimento al termine della battaglia, o infine per
spostarsi rapidamente sul campo di battaglia e prestare soccorso a reparti di fanteria in
difficoltà. I cavalieri usavano briglie e morsi, ma le staffe e la sella erano sconosciuti:
non è quindi ipotizzabile una cavalleria "da urto". Quei cavalieri che, nelle stele funerarie
appaiono armati di lancia e spada, protetti da un elmo, magari con scudo e piastra pettorale,
erano molto probabilmente una sorta di fanteria oplitica mobile.
Un primo esempio di formazione "a testuggine" (testudo) utilizzato dalla fanteria
romana, fu menzionato da Tito Livio nel corso dell'assedio di Veio e di quello di Roma degli
inizi del IV secolo. In questa situazione i soldati romani serravano le file e si
avvicinavano tra loro, quasi fossero delle tegole di un tetto che ripara dalla "pioggia di dardi
e frecce", sovrapponendo gli scudi, tenendoli di fronte a loro ed alzati sulle loro teste.
Sembrava di vedere un carro armato vivente, che avanzava sotto i colpi degli arcieri nemici,
limitando al minimo le perdite. Ovviamente la testuggine era una formazione lenta, che era
spesso utilizzata negli assedi, per avvicinarsi alle mura avversarie, oppure in battaglia in
campo aperto, quando si era circondati da ogni lato, come accadde nella campagna partica di
Marco Antonio.
Questo tipo di formazione era usato soprattutto in fase di assedio alle mura di una fortezza
nemica. Viene ricordata ancora da Livio durante le guerre sannitiche o da Gaio Sallustio
Crispo durante la guerra giugurtina. E perché fosse efficace, necessitava di grande
affiatamento di reparto, coordinazione nei movimenti ed esercitazioni specifiche.
Spesso però tale formazione fu impiegata in Oriente, di fronte alla terribile cavalleria dei
catafratti partici o degli arcieri orientali, come accadde durante le campagne di Marco
Antonio:
Appartengono a questo periodo i primi assedi subiti dalla città di Roma ad opera degli Etruschi di Porsenna e dei Galli di Brenno, da cui i Romani evidentemente appresero nuove tecniche per occupare le vicine città etrusche e latine. Risalirebbe, infatti, al 396 a.C. il primo importante assedio ad opera dei Romani tramandatoci dagli antichi scrittori latini: la caduta di Veio, dove si racconta che Camillo si diresse su Veio, fece costruire alcuni fortini ed una galleria che doveva arrivare fino alla rocca, passando sotto le mura nemiche. Gli scavatori furono divisi in sei squadre che si avvicendavano ogni sei ore. Dopo giorni e giorni in cui gli assalti romani erano stati sospesi, con sommo stupore degli etruschi, il re di Veio stava celebrando un sacrificio nel tempio di Giunone quando gli assaltatori romani, che avevano quasi terminato lo scavo e attendevano di abbattere l'ultimo diaframma, udirono il presagio dell'aruspice etrusco: la vittoria sarebbe andata a chi avesse tagliato le viscere di quella vittima. I soldati romani uscirono dal cunicolo, iniziarono l'attacco e prese le viscere le portarono al loro dittatore. Nello stesso tempo fu sferrato l'attacco generale di tutte le forze romane contro i difensori delle mura. Così, mentre tutti accorrevano sui bastioni,
Roma, al principio del IV secolo a.C., aveva appena sperimentato un decisivo
salto di qualità della sua storia, sia per l'importante acquisizione territoriale sia per
l'esibizione di un'accresciuta disciplina e organizzazione militare, uscendo vittoriosa nel 396
a.C. dalle guerre con Veio. La caduta di Veio aveva comportato un riequilibrio degli assetti
politici delle altre capitali etrusche e delle loro tradizionali tensioni interne: l'ostilità
verso Veio era malamente adombrata dalla neutralità manifestata dalle altre città della
dodecapoli etrusca gravitante intorno al Fanum Voltumnae: in almeno un caso, questa ostilità era
apertamente sfociata nell'aperta alleanza offerta a Roma da Caere (Cerveteri). Un altro
effetto fu l'accresciuta consapevolezza delle potenzialità, anche militari, della res
publica. A minare questo clima di fiducia e a mettere in allarme Roma fu una tribù
particolarmente bellicosa: i Senoni, invasero la provincia etrusca di Siena dal nord
e attaccarono la città di Clusium, non molto distante dalla sfera d'influenza di Roma. Gli
abitanti di Chiusi, sopraffatti dalla forza dei nemici, superiori in numero e per ferocia,
chiesero aiuto a Roma, che rispose all'appello. Così, quasi senza volerlo, i Romani non solo
si ritrovarono in rotta di collisione con i Senoni, ma ne divennero il principale obiettivo.
I Romani li fronteggiarono in una battaglia campale presso il fiume Allia variamente
collocata tra il 390 e il 386 a.C. I Galli, guidati dal condottiero Brenno, sconfissero
un'armata romana di circa 15.000 soldati e incalzarono i fuggitivi fin dentro la stessa
città, che fu costretta a subire una parziale occupazione e un umiliante sacco, prima
che gli occupanti fossero scacciati o, secondo altre fonti, convinti ad andarsene
dietro pagamento di un riscatto.
In seguito a questi eventi i Romani potrebbero aver adottato un nuovo tipo di elmo (chiamato di
Montefortino, dal nome di una necropoli vicino ad Ancona, che venne utilizzato fino al I secolo
a.C. dall'esercito romano,), uno scudo protetto da bordi in ferro ed un giavellotto
(pilum) tale, da conficcarsi e piegarsi negli scudi avversari, rendendoli inutilizzabili per il
prosieguo della battaglia. Plutarco racconta, infatti, che 13 anni dopo la battaglia del
fiume Allia, in un successivo scontro con i Galli (databile al 377-374 a.C.), i Romani
riuscirono a battere le armate celtiche, e ne fermarono una nuova invasione.
Oltre 150 più tardi (nel 225 a.C.), ancora i Celti furono affrontati e vinti dai Romani.
E ancora Livio e Cesare, riferendosi ai Celti, raccontano che, durante la battaglia di Sentino
del 295 a.C. e la conquista della Gallia del 58-50 a.C., essi conoscevano già la tecnica-tattica
della testuggine, da cui forse i Romani l'avrebbero appresa.
È Polibio ad informarci dell'ordine di marcia "base" di un esercito romano consolare, formato quindi da due legioni romane e due di alleati (socii). In testa alla "colonna" (agmen pilatum) si trovava un'avanguardia di soldati scelti tra le truppe alleate (socii delecti), poi seguiva l'ala dextra sociorum, a seguire i bagagli alleati (impedimenta sociorum alae dextrae), la legio I consolare, i bagagli legionari (impedimenta legionis I), la legio II consolare, i bagagli legionari (impedimenta legionis II), a seguire i bagagli alleati (impedimenta sociorum alae sinistrae) e a chiudere l'ala sinistra sociorum.
Quando vi era poi il timore di qualche attacco alla retroguardia, l'ordine
rimaneva invariato ad eccezione dei soli alleati extraordinarii, i quali erano posti in coda
alla colonna. Le due legioni e le due ali marciano, inoltre, alternativamente un giorno in testa
e un giorno in coda alla colonna, in modo che tutti potessero, a turno, usufruire di acqua pura
e campi di foraggio ancora integri.
Sempre Polibio, poi Floro ed ancora Gaio Giulio Cesare, ci informano di un ordine di marcia
particolare dell'esercito romano, databile per il primo alla guerra annibalica e per il
secondo alle guerre cimbriche, per il terzo alla conquista della Gallia e chiamato agmen
tripartitum o acie triplici instituita. Questo ordine prevedeva tre differenti "colonne" o
"linee", ciascuna costituita rispettivamente da manipoli di hastati (1º colonna, la più esposta
ad eventuali attacchi nemici), principes (2º colonna) e triarii (3º colonna), intervallati con i
rispettivi bagagli (impedimenta). In caso di necessità i bagagli sfilavano sul retro della terza
colonna di triarii, mentre l'esercito romano si trovava già schierato in modo adeguato (triplex
agmen).
Altra e fondamentale novità di questo periodo fu che il nuovo esercito, dovendo condurre
campagne militari sempre più lontane dalla città di Roma, fu costretto a trovare delle soluzioni
difensive adatte al pernottamento in territori spesso ostili. Ciò indusse i Romani a creare,
sembra a partire dalle guerre pirriche, un primo esempio di accampamento militare da marcia
fortificato, per proteggere le armate romane al suo interno.
Il primo castra romano da marcia o da campagne militare (castra aestiva), ce lo descrive
lo storico Polibio.
Esso presentava una pianta rettangolare e una struttura interna adoperata anche nella
pianificazione delle città: strade perpendicolari tra loro (chiamate cardo e decumano) che
formavano un reticolato di quadrilateri.
Il vecchio schieramento falangitico presentava alcuni punti deboli, che con la
nuova formazione manipolare i Romani cercarono di migliorare. La falange, infatti, richiedeva
una notevole compattezza e terreni assai pianeggianti. Quando i Romani si trovarono, quindi,
attorno alla metà del IV secolo a.C., a dover combattere contro i Sanniti nelle regioni montuose
dell'Italia Meridionale, furono costretti ad adottare non solo una nuova struttura (la legione
fu divisa in 30 manipoli) e nuove armi (come il pilum e lo scutum ovale), ma anche una
nuova tattica, certamente più elastica di quella adottata con la riforma di Servio Tullio.
La vera novità della formazione manipolare era che, non solo si dava maggior autonomia ai 30
sub-reparti (manipuli), ma che i soldati non erano più inquadrati secondo il loro censo, al
contrario in base alla loro età, esperienza e capacità di combattimento. Solo i velites, che
erano i cittadini meno abbienti, continuavano a svolgere il ruolo originario di fanteria
leggera, davanti ai manipoli, ora formati da hastati-principes-triarii.
Lo schieramento base di questo medio periodo repubblicano era il cosiddetto acies triplex,
ovvero la disposizione degli uomini su tre linee distinte. La prima linea era composta dagli
hastati, la seconda dai principes e la terza dai triarii. La fanteria al centro era sempre
coperta ai fianchi da unità di cavalleria, un'avanguardia di tiratori o schermagliatori che
davano inizio alla battaglia scagliando dardi o giavellotti sul nemico per poi ritirarsi al
sicuro. La cavalleria si assicurava che i lati rimanessero difesi, e grazie al rapido movimento
tentavano di aggirare il nemico, mentre la prima linea romana lo impegnava, per colpire alle
spalle.
Gli eserciti, come abbiamo visto sopra, erano schierati in base al loro livello di preparazione
(ed in parte al loro censo): davanti a tutti c'erano i velites, armati alla leggera, erano
dotati di fionde, giavellotti e piccolo scudo, ed avevano il compito di distrarre, innervosire
il nemico con costanti lanci di dardi, coprendo inoltre le manovre della fanteria pesante romana
alle loro spalle. Dopo aver compiuto sufficienti azioni di disturbo, ed aver dato tempo ai
soldati meglio equipaggiati di loro, si ritiravano dal campo di battaglia, sfilando alle spalle
degli hastati, dei principes e dei triarii, ultimi della formazione, i veri veterani.
I Triarii, dopo aver accolto Hastati e Principes tra le loro file, serravano le file ed in un'unica ininterrotta schiera si gettavano sul nemico.
Appartengono a questo periodo i primi importanti assedi ad opera dei Romani. Nel
250 a.C. l'assedio di Lilibeo comportò per la prima volta l'attuazione di tutte le tecniche
d'assedio apprese durante le guerre pirriche degli anni 280-275 a.C., tra cui torri d'assedio,
arieti e vinea. Vi è da aggiungere che un primo utilizzo di macchine da lancio da parte
dell'esercito romano sembra sia stato introdotto dalla prima guerra punica, dove fu necessario
affrontare i Cartaginesi in lunghi assedi di loro potenti città, difese da imponenti mura e
dotate di una sofisticata artiglieria.
Archimede potrebbe aver usato i suoi specchi in modo collettivo per riflettere la luce del sole
per bruciare le navi della flotta romana durante l'assedio di Siracusa.
Trentacinque anni più tardi, nel 214-212 a.C. i Romani dovettero affrontare uno dei più
difficili assedi della loro storia: quello di Siracusa, ad opera del console Marco Claudio
Marcello. I Romani, che avevano maturato un sufficiente bagaglio di esperienze negli assedi sia
di mare che di terra, si scontrarono però con le tecniche innovative difensive adottate dal
famoso matematico Archimede.
Ma Archimede preparò la difesa della città, lungo i 27 km di mura difensive, con nuovi mezzi
d'artiglieria. Si trattava di baliste, catapulte e scorpioni, oltre ad altri mezzi come la manus
ferrea e gli specchi ustori, con cui mise in seria difficoltà gli attacchi romani per mare e per
terra. I romani dal canto loro continuarono i loro assalti dal mare con le quinqueremi e per
terra dando l'assalto con ogni mezzo a loro disposizione (dalle torri d'assedio, agli arieti,
alle vinae, fino alle sambuche).
Marcello decise allora di mantenere l'assedio, provando a stritolare la città per fame.
L'assedio si protrasse per ben 18 mesi, un tempo tanto lungo da far esplodere notevoli contrasti
in Siracusa tra il popolo, tanto che la parte filoromana architettò il tradimento, permettendo
ai Romani di fare irruzione in piena notte, quando furono aperti i cancelli della zona nord
della città. Siracusa cadde e fu saccheggiata, non però la vicina isola di Ortigia, ben protetta
da altre mura, che resistette ancora per poco. In quell'occasione trovò la morte anche il grande
scienziato siracusano Archimede, che fu ucciso per errore da un soldato.
Altri e memorabili assedi del periodo furono quello degli anni 212-211 a.C., nel corso della
seconda guerra punica, quando Annibale, se riuscì una prima volta a rompere l'assedio alla città
di Capua (nel 212 a.C.), la seconda volta i Romani mantennero saldo le loro posizioni in
Campania
E così Annibale, constatato che le difese di Roma erano assai forti e gli assedianti romani di
Capua non "rompevano l'assedio", abbandonò la città campana, che cadde poco dopo in mano romana.
Nel 209 a.C., nel mezzo della seconda guerra punica, Publio Cornelio Scipione riuscì ad
espugnare la città ibero-cartaginese di Cartagena (poi ribattezzata Nova Carthago), dove al suo
interno fu trovato un arsenale di macchine da lancio pari a 120 catapulte grandi, 281 piccole,
23 baliste grandi e 52 piccole, oltre ad un notevole numero di scorpioni.
Ultimi e sempre più "raffinati" assedi messi in atto dai romani nel periodo in questione, furono
quello del 146 a.C., durante la terza guerra punica, a Cartagine, dove Appiano di Alessandria ci
racconta che i Romani di Publio Cornelio Scipione Emiliano, catturarono più di 2.000 macchine da
lancio (tra catapulte, baliste e scorpioni) nella sola capitale cartaginese. Ed infine
quello degli anni 134-133 a.C., di Numanzia, quando il console Publio Cornelio Scipione
Emiliano, eroe della terza guerra punica, dopo aver saccheggiato il paese dei Vaccei, cinse
d'assedio la città. L'armata comandata da Scipione era integrata da un nutrito contingente di
cavalleria numidica, fornita dall'alleato Micipsa, al cui comando si trovava il giovane nipote
del re, Giugurta. Per prima cosa, Scipione si adoperò per rincuorare e riorganizzare l'esercito
scoraggiato dall'ostinata ed efficace resistenza della città ribelle; poi, nella certezza che la
cittadella poteva essere presa solo per fame, fece costruire una circonvallazione (un muro di 10
chilometri tutto intorno) atta a isolare Numanzia e a privarla di qualsiasi aiuto esterno. Il
console si adoperò poi a scoraggiare gli Iberi dal portare aiuto alla città ribelle,
presentandosi con l'esercito alle porte della città di Lutia e obbligandola alla sottomissione e
alla consegna di ostaggi. Dopo quasi un anno di assedio, i Numantini, ormai ridotti alla fame,
cercarono un abboccamento con Scipione, ma, saputo che questi non avrebbe accettato altro che
una resa incondizionata, i pochi uomini in condizione di combattere preferirono gettarsi in un
ultimo, disperato assalto contro le fortificazioni romane. Il fallimento della sortita spinse i
superstiti, secondo la leggenda, a bruciare la città e a gettarsi fra le fiamme. I resti
dell'oppidum furono rasi al suolo come Cartagine pochi anni prima.
È certo che ai tempi della terza guerra sannitica, se non prima, i Sanniti
avevano pienamente sviluppato e organizzato i loro eserciti tribali, che non dovevano essere
molto diversi dall'esercito romano, tanto che Livio non esitava a parlare di “legioni” sannite.
Un esercito sannita era organizzato in coorti – secondo Livio composte da 400 uomini – e
combatteva in manipoli. La cavalleria sannita, inoltre, godeva di ottima fama.
I successi iniziali dei Sanniti contro i Romani sul terreno montuoso, confermano come essi
usassero un ordine di battaglia flessibile e aperto, piuttosto che schierare una falange
serrata. Una tradizione, sostenuta dal frammento in greco detto Ineditum Vaticanum e da Diodoro
Siculo, vuole che i Sanniti usassero sia il giavellotto (pilum), sia un lungo scudo
ellittico, diviso verticalmente in due da una nervatura con una borchia al centro (lo scutum), e
che i Romani appresero da essi l'uso di tali armi, oltre alla tattica manipolare ed un miglior
utilizzo della cavalleria. L'impressione generale che si ricava dell'esercito sannita è quella
di uomini non appesantiti da troppe armature difensive e ben equipaggiati per un'azione
flessibile.
Il re Pirro utilizzava uno schieramento ellenico di tipo falangitico, assai difficile da affrontare per i Romani (inizi III secolo a.C.). Nonostante le iniziali sconfitte subite dalla Repubblica romana, il re epirota subì anch'egli perdite considerevoli nel corso dei cinque anni di guerra (dal 280 al 275 a.C.), tanto da indurre i contemporanei a sottolineare a quale terribile costo fossero state ottenute dal sovrano ellenico, con il famoso detto dispregiativo di "vittoria di Pirro". Un comandante abile ed esperto come Pirro, schierava la sua falange attraverso un sistema misto, comprendente unità miste di elefanti da guerra, oltre a formazioni di fanteria leggera (peltasti), unità di élite e la cavalleria, tutte a sostegno del corpo principale di fanteria. L'utilizzo di tutte queste componenti permise ai Greci della Magna Grecia di sconfiggere i Romani in due circostanze, mentre nella terza battaglia si ebbe un parziale successo di questi ultimi, i quali impararono dai loro stessi errori, facendone tesoro per le battaglie successive e riuscendo definitivamente a battere le falange ellenica un secolo più tardi (nel 168 a.C.).
A partire dalla guerra annibalica, in seguito alla cocente sconfitta di Canne,
subita dalle armate romane nel 216 a.C., ci si rese conto che, l'esercito romano non poteva più
basarsi sulla sola fanteria pesante posizionata al centro dello schieramento, era necessario
rafforzare i reparti di cavalleria alle sue ali, per evitare di essere circondati dal nemico ai
lati e subire una sconfitta tanto devastante.
La riflessione maturò dopo questa grave sconfitta, nella quale Annibale era riuscito ad
annientare un esercito romano tre volte superiore, usando in modo impeccabile la sua cavalleria.
Durante la battaglia il centro cartaginese, che aveva assorbito la carica romana
indietreggiando, aveva consentito che i suoi lati si allungassero. I Romani, avanzando
centralmente, avevano creduto di poter sfondare facilmente la formazione avversaria. Frattanto
la cavalleria punica, nettamente superiore in numero e per qualità tattiche quella romana, la
annientava. E mentre la fanteria romana si incuneava pericolosamente al centro dello
schieramento cartaginese, la cavalleria punica circondava la fanteria romana e la caricava da
dietro. 80.000 soldati romani persero così la vita nello scontro. Si trattava della peggior
sconfitta dell'intera storia romana.
Nella battaglia di Zama, Publio Cornelio Scipione si trovò, per la prima volta dall'inizio della
guerra annibalica, in netta superiorità numerica come forza di cavalleria, 4.000 dei quali
forniti dall'alleato numida, Massinissa. La battaglia ebbe inizio con una carica da parte
dei Cartaginesi di ben 80 elefanti da guerra, lo scopo era quello di sfondare al centro, lo
schieramento romano. Per ovviare a ciò, Scipione pose i triarii come riserva tattica, nelle
retrovie, pronti ad un utilizzo in qualunque zona del campo di battaglia. Lasciò invece, i
velites schierati, per evitare che Annibale si accorgesse che principes ed hastati erano
disposti "in colonna", in modo da lasciare tra i vari manipoli dei corridoi, nei quali si
sarebbe sfogata la carica degli elefanti, limitando al minimo i danni. Esaurito l'impeto della
prima carica cartaginese, i legionari si trovavano a fronteggiare i veterani di Annibale,
schierati dietro le prime file. Scipione diede così l'ordine di serrare i ranghi, e di
predisporsi a sopportare l'urto della fanteria pesante cartaginese, mentre la cavalleria
romana-numidica procedeva a sconfiggere le ali avversarie. Questa prima disposizione tattica,
simile a quella successiva per coorti, mise in atto una tattica sempre più flessibile, pronta ad
adeguarsi alle circostanze e contribuendo alla vittoria sul campo del "miglior" nemico di Roma,
Annibale.
E seppure la cavalleria non risultò mai l'arma principale nello schieramento romano, crebbe di
importanza nella tattica utilizzata durante le successive battaglie, visto l'esito vittorioso di
Zama. I cavalieri romani, spesso ausiliari alleati, reclutati presso le popolazioni locali,
nelle singole campagne militari, si rivelarono di fondamentale importanza ad esempio nel corso
della conquista della Gallia di Cesare. Si racconta che durante l'assedio di Alesia, quando
sembrò che le sorti della battaglia fossero ormai decise, in un pareggio tra le parti, Cesare, a
sorpresa, inviò lungo un fianco dello schieramento gallico la cavalleria germanica, la quale
riuscì non solo a respingere il nemico, ma a far strage degli arcieri che si erano mischiati
alla cavalleria, inseguendone le retroguardie fino al campo dei Galli. L'esercito di
Vercingetorige che si era precipitato fuori dalle mura di Alesia, rattristato per l'accaduto fu
costretto a tornare all'interno della città, quasi senza colpo ferire.
I Romani ebbero la meglio contro la falange macedone in due differenti scontri: a
Cinocefale nel 197 a.C. ed a Pidna nel 168 a.C. Nel primo scontro i Romani ottennero la vittoria
grazie a migliori e più qualificate forze di cavalleria (forti dell'esperienza della precedente
guerra annibalica), le quali prima sconfissero la cavalleria nemica e poi aggredirono i fianchi
ed il retro della falange nemica.
Nel secondo e decisivo scontro, quello di Pidna, i Macedoni, avendo compreso quali fossero stati
i loro errori tattici nella precedente battaglia, raccolsero anch'essi un ingente corpo di
cavalleria, pari in numero a quella romana (circa 4.000 armati) e fortificarono così i loro
fianchi. Il fatto poi che i due schieramenti si affrontassero, almeno inizialmente, su un
terreno relativamente pianeggiante, fece sì che la falange macedone, forte di 21.000 fanti
pesanti, riuscì in un primo momento a respingere con successo l'attacco delle legioni romane,
tanto da costringerle ad indietreggiare. Ciò portò, però, ad un vantaggio per i Romani, in
quanto il terreno sul quale erano indietreggiati, era sconnesso ed inadatto alla formazione
falangitica, che richiedeva la massima compattezza. I Macedoni, avanzando, si trovarono a
perdere la loro necessaria coesione. I Romani, superato lo smarrimento iniziale, ora che il
combattimento si era spostato su un terreno assai a loro più favorevole, ottennero la vittoria
finale grazie alla maggiore mobilità delle legioni manipolari rispetto alla "rigidezza" della
falange macedone, e grazie ad armi più adeguate (come lo scudo oblungo e la spada corta,
importata dalla Spagna) al combattimento ravvicinato del "corpo a corpo". E così i Romani, dopo
aver neutralizzato la lunga picca macedone, ebbero la meglio sulle inesistenti armi
supplementari macedoni (un'armatura assai leggera ed un pugnale). Sembra, inoltre, che il
comandante macedone, Perseo, vista la tragica situazione in cui versavano le sue truppe, fuggì
senza provare a condurre la cavalleria alla carica, per proteggere la ritirata della sua
fanteria ormai in difficoltà. La battaglia si racconta, si risolse in meno di due ore, con una
sconfitta completa delle forze macedoni.
In seguito alle invasioni dei Cimbri e dei Teutoni, dove le armate romane avevano
subito numerose sconfitte, anche a causa della nuova tattica adottata dalle popolazioni
germaniche del cuneus. Si trattava di una formazione molto compatta e profonda che mirava a
devastare il centro dello schieramento avversario. Per questo motivo, Caio Mario, intuì che
c'era la necessità di cambiare la tattica tradizionale per poter finalmente contrastare il
nemico germanico, tattica che si era rivelata già disastrosa ai tempi della guerra annibalica.
Egli adottò così uno schieramento più compatto (che potesse fronteggiare il devastante impatto
del cuneus germanico), ma allo stesso tempio più flessibile, in modo tale da poter agire
autonomamente all'interno dello schieramento legionario, e potendo così aggirare i fianchi del
nemico (unico punto debole) e metterlo in gravi difficoltà.
La nuova organizzazione dell'esercito romano subiva, pertanto, un cambiamento di fondamentale
importanza: il manipolo (formato da sole due centurie) perse ogni funzione tattica in battaglia
(non invece quella amministrativa) e fu sostituito, come unità di base della legione, da
10 coorti (sull'esempio di ciò che era già stato anticipato da Scipione l'Africano un secolo
prima), ora numerate da I a X. Furono, come si è accennato prima, eliminate le divisioni
precedenti tra Hastati, Principes e Triarii, ora tutti equipaggiati con il pilum (arma da
lancio, che sostituiva l'hasta, che fino ad allora era in dotazione ai Triarii).
Gaio Giulio Cesare ci racconta l'ordine di marcia delle legioni e delle truppe ausiliarie di
fanteria e cavalleria in prossimità del nemico durante la conquista della Gallia, databile al 57
a.C., come segue:
Le nuove unità militari di base delle legioni, le coorti, venivano schierate
normalmente su due linee (duplex acies), soluzione che permetteva di avere un fronte
sufficientemente lungo ma anche profondo e flessibile. Vi erano poi altri tipi di
schieramenti praticati dalle armate romane del tardo periodo repubblicano: su una sola linea,
ovviamente quando era necessario coprire un fronte molto lungo come nel caso del Bellum Africum
durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo; o su tre linee (triplex acies), formazione
spesso utilizzata da Cesare durante la conquista della Gallia, con la prima linea formata da 4
coorti, e le restanti due, formate da tre coorti ciascuna. Le coorti schierate lungo la terza
linea costituivano spesso una "riserva tattica" da utilizzare in battaglia, come avvenne contro
Ariovisto in Alsazia. E sempre Cesare ci parla di un ordine coortale su quattro linee a
battaglia di Farsalo a protezione della cavalleria di Pompeo. Tale schieramento risultava
così molto più compatto e "profondo" da sfondare, rispetto al precedente ordinamento manipolare.
Questo genere di tattica sembra sia stata adottata inizialmente dai Germani, da cui i Romani ne appresero la disposizione (dai tempi di Gaio Mario e Gaio Giulio Cesare) e potrebbero averla perfezionata nei secoli successivi, sia durante l'occupazione romana della Germania sotto Augusto, sia durante le guerre marcomanniche di Marco Aurelio, come riferiscono alcuni autori latini: da Aulo Gellio, scrittore del II secolo, ad Ammiano Marcellino e Flavio Vegezio Renato, scrittori del IV secolo. Sembra che i legionari si disponevano a cuneo in una formazione d'attacco compatta, larga alla base e molto stretta al vertice, ovvero formavano un triangolo (detta anche "testa di porco", caput porcinum), ponendo al vertice avanzato il proprio centurione. La funzione principale di questa formazione era dividere lo schieramento avversario in due differenti tronconi, in modo da renderlo maggiormente vulnerabile. Del resto i Romani, fin dai primordi, erano soliti tentare di sfondare il centro della formazione nemica, indebolendolo con continue cariche da parte della fanteria pesante: una volta sfondato il fronte nemico, si procedeva a circondarlo, grazie anche dell'ausilio della cavalleria, che premeva i lati impedendone la fuga. Un utilizzo di questo tipo si ricorda nel IV secolo, quando Costantino I la adottò contro le truppe di Massenzio nella battaglia di Torino del 312.
Un altro tipo di tattica adottato in questo periodo sembra sia stato quello "a
circolo" (orbis), come descritto da Cesare durante la conquista della Gallia, che sembra sia
stato praticato però da piccole formazioni (in antitesi alla formazione agmen quadratum di
diverse legioni-truppe alleate).
Altro episodio dove Cesare racconta la formazione "in cerchio", che però si rivelò poco adatta,
riguarda il quinto anno di campagna militare in Gallia, quando le truppe in marcia di Quinto
Titurio Sabino e Lucio Aurunculeio Cotta furono attaccate a sorpresa e massacrate da quelle
galliche di Ambiorige. Sabino e Cotta furono uccisi, e solo pochi soldati riuscirono a
raggiungere le truppe comandate da un altro legato di Cesare, Tito Labieno.
I comandanti romani erano spesso in prima linea, per dare dimostrazione del
proprio coraggio ed impeto ai propri soldati, ai fini del buon esito della battaglia. Ciò
portava, però ed inevitabilmente, ad una loro alta mortalità a causa dell'elevato rischio a cui
erano esposti. Altri ebbero il coraggio, pari alla fortuna di non aver mai subito ferite
mortali, come Lucio Cornelio Silla Felix (ovvero il fortunato) e lo stesso Gaio Giulio Cesare.
Lo svolgimento della battaglia vide poco dopo i Romani prendere il sopravvento, e sebbene i
Nervi combattessero con coraggio e ostinazione, furono completamente massacrati. Cesare narra
che al termine della battaglia dei 60.000 Nervi, ne rimasero in vita solo 500.
Nel capolavoro tattico che vide Cesare impegnato ad Alesia, nel mezzo dello scontro finale, dove
i Galli premevano contro le fortificazioni sia interne che esterne, ed i Romani erano ormai
prossimi al tracollo definitivo, il proconsole romano, venuto a conoscenza che malgrado avesse
inviato numerose coorti in soccorso la situazione al campo settentrionale continuava ad essere
assai grave, decise di recarsi personalmente con nuovi reparti legionari raccolti durante il
percorso di avvicinamento. Qui non solo riuscì a ristabilire la situazione a favore dei Romani,
ma con mossa inaspettata e repentina ordinò a quattro coorti e a parte della cavalleria di
seguirlo: aveva in mente di aggirare le fortificazioni ed attaccare il nemico alle spalle.
Frattanto Labieno, radunate dai vicini fortilizi in tutto trentanove coorti, si apprestò a
muovere anch'egli contro il nemico.
Cesare aveva vinto nuovamente. Questa volta aveva, però, sconfitto l'intera coalizione della
Gallia. La sua era stata una vittoria totale contro l'impero dei Celti. Vi è da aggiungere,
però, che non era solo al comandante che spettava questo duro compito di apparire spesso nelle
prime linee. Tale ruolo era, almeno dai tempi delle guerre puniche, assunto dai centurioni,
posizionati sulla destra dello schieramento manipolare e poi coortale. Posizione certamente
assai rischiosa. Non a caso spesso al termine di aspri scontri, numerosi erano i centurioni
caduti al termine della battaglia.
Sappiamo da numerose fonti che in alcuni casi i comandanti romani utilizzavano
parte del loro esercito quale "riserva tattica", da poter utilizzare poi nel corso della
battaglia. Sembra infatti che si debba ascrivere a Lucio Cornelio Silla questa importante
innovazione tattica utilizzata poi nei secoli successivi. L'unità in questione, utilizzabile in
caso di estrema necessità, fu creata per la prima volta nel corso della battaglia di Cheronea
dell'86 a.C. Lo storico Giovanni Brizzi ricorda, infatti, che l'ala sinistra dello schieramento
romano, comandato da Lucio Licinio Murena, fu salvato grazie all'intervento di questa "riserva"
tattica comandata dai legati Quinto Ortensio Ortalo e Galba.
Un altro esempio lo apprendiamo da Cesare nel corso della conquista della Gallia, contro i
Germani di Ariovisto in Alsazia o a Bibracte contro gli Elvezi nel 58 a.C., in quella successiva
del 57 a.C. nei pressi del fiume Axona.
Senza dimenticare forse la più importante battaglia di Cesare, quella di Farsalo contro il
rivale Pompeo, per la supremazia sulla stessa Roma.
Appartengono certamente a questo periodo i più "famosi" assedi dell'intera storia romana, per le migliori tecniche militari adottate, con cui i Romani riuscirono ad assaltare ed occupare anche città nemiche considerate inespugnabili. Ricordiamo ad esempio l'assedio di Numanzia da parte di Scipione Emiliano, di Atene per merito di Lucio Cornelio Silla, o di Avarico e del più conosciuto e studiato dai moderni di Alesia, ad opera di Gaio Giulio Cesare. I Romani utilizzavano tre principali metodi per impadronirsi delle città nemiche:
Se consideriamo l'assedio di Avarico, i Romani ottennero la vittoria finale a
caro prezzo, dopo quasi un mese di estenuante assedio, che apparentemente non aveva portato
alcun vantaggio al proconsole romano.
Sebbene vi fossero questi continui impedimenti per l'esercito romano, i legionari, pur
ostacolati dal freddo e dalle frequenti piogge, riuscirono a superare tutte le difficoltà ed a
costruire nei primi venticinque giorni di assedio, un terrapieno largo quasi 100 metri ed alto
quasi 24 metri, di fronte alle due porte della cittadella. Cesare, era così riuscito a
raggiungere il livello dei contrafforti, tanto da renderli inutili per la difesa degli
assediati.
Il ventisettesimo giorno dall'inizio dell'assedio di Avarico, scoppiato un grande temporale,
Cesare ritenne fosse giunto il momento opportuno di attaccare, considerando sia la difficoltà
dei nemici di appiccare nuovi fuochi al terrapieno sotto una pioggia battente, e sia la minor
cura con cui il servizio di guardia delle mura sarebbe stato disposto rispetto ad altri momenti.
I Romani, pertanto, dapprima si nascosero all'interno delle vineae, ed al segnale convenuto
riuscirono ad irrompere con grande velocità sugli spalti della città. Dopo aspri combattimenti
prima sulle mura e poi all'interno della città, dove i Galli si erano disposti in forma di
cuneo, intenzionati a battersi fino alla morte, i soldati romani, esasperati dalle lunghe
fatiche patite nel corso di quell'ultimo mese, bruciarono l'intera città e trucidarono l'intera
popolazione, comprese le donne, i vecchi ed i bambini. Dei 40.000 abitanti solo 800 salvarono la
vita.
Ad Alesia le opere messe in atto da Cesare furono mastodontiche, come mai prima di allora e
dopo, nell'intera storia romana si erano mai viste. La città dei Galli era su una posizione
fortificata in cima ad una collina con spiccate caratteristiche difensive, circondata a valle da
tre fiumi (l'Ose a nord, l'Oserain a sud ed il Brenne ad ovest). Per tali ragioni Cesare ritenne
che un attacco frontale non avrebbe potuto avere buon esito ed optò per un assedio, nella
speranza di costringere i Galli alla resa per inedia. Considerato che circa ottantamila soldati
si erano barricati nella città, oltre alla popolazione civile locale dei Mandubi, sarebbe stata
solo questione di tempo: la fame prima o poi li avrebbe condotti alla morte o costretti alla
resa.
Per garantire un perfetto blocco, Cesare ordinò la costruzione di una serie di fortificazioni,
chiamate "controvallazione" (interna) e "circonvallazione" (esterna), attorno ad Alesia. I
dettagli di quest'opera ingegneristica sono descritti da Cesare nei Commentari e confermati
dagli scavi archeologici nel sito. Per prima cosa Cesare fece scavare una fossa (ad occidente
della città di Alesia, tra i due fiumi Ose e Oserain) profonda venti piedi (pari a circa sei
metri), con le pareti dritte in modo che il fondo fosse tanto largo quanto distavano i margini
superiori. Ritirò, quindi, tutte le altre fortificazioni a quattrocento passi da quella fossa ad
occidente (seicento metri circa).
A questo punto, fu costruito, nel tempo record di tre settimane, la prima "circonvallazione" di
quindici chilometri tutto intorno all'oppidum nemico (pari a dieci miglia romane) e,
all'esterno di questo, per altri quasi ventun chilometri (pari a quattordici miglia), la
"controvallazione".
Le fortificazioni costruite da Cesare ad Alesia, nell'ipotesi della locazione della battaglia
presso Alise-sainte-Reine (52 a.C.).
Le opere comprendevano:
Erano necessarie considerevoli capacità ingegneristiche per realizzare una tale opera, ma non nuove per uomini come gli edili, gli ufficiali di Roma, che solo pochi anni prima, in dieci giorni, avevano costruito un ponte attraverso il Reno con somma meraviglia dei Germani. Ed infine, per non trovarsi poi costretto ad uscire dal campo con pericolo per l'incolumità delle sue armate, Cesare ordinò di avere un deposito di foraggio e di frumento per trenta giorni.
Cesare, durante la conquista della Gallia nel 58 a.C., dovendosi scontrare con le
armate germaniche, racconta di alcune abitudini dei guerrieri germani, abili sia con la
cavalleria che utilizzavano per compiere rapide ed improvvise sortite, sia con la fanteria,
forte di uno schieramento falangitico.
Successivamente, giunto in Alsazia, si apprestò a battersi con il grosso dell'esercito nemico e
la sua possente fanteria. Cesare schierò le sue truppe in modo che le sue forze ausiliarie
fossero disposte di fronte al campo piccolo e poi, via via, le sei legioni su tre schiere
(triplex acies). Avanzò, quindi, verso il campo dei Germani di Ariovisto e lo costrinse a
disporre le sue truppe fuori dal campo. Quest'ultimo ordinò l'esercito per tribù: prima quella
degli Arudi, poi i Marcomanni, i Triboci, i Vangioni, i Nemeti, i Sedusi ed infine gli Svevi.
Ogni tribù, poi, fu circondata da carri e carrozze, affinché non ci fosse la possibilità di fuga
per nessuno: sopra i carri c'erano le donne, che imploravano i loro uomini di non abbandonarle
alla schiavitù dei Romani.
L'esercito mitridatico poteva contare su una tipologia di truppe molto vasta:
dalla fanteria falangitica di stampo ellenistico, alla cavalleria "leggera" di arcieri
armeniaco-partico, a quella "pesante" catafratta, oltre ad unità di carri falcati, sempre di
tipo orientale, fino a flotte (anche di pirati) composte per lo più da pentecontere e biremi.
Roma ebbe così modo di adattare le proprie tattiche al nuovo nemico orientalie nel corso di
trent'anni di guerre.
Quando le legioni romane si scontrarono per la prima volta con le armate partiche nel 53 a.C. a
Carre nella Mesopotamia settentrionale, subendo una delle più tremende sconfitte dell'intera
storia romana, i successivi generali furono costretti a ripensare quale nuova tattica mettere in
atto per difendersi da queste cariche di cavalleria "pesante" catafratta. Nelle successive
campagne militari che si susseguirono, i legionari utilizzarono una disposizione più protetta,
formando una specie di "muro umano" su due linee. La prima linea s'inginocchiava ponendo lo
scutum ovale di fronte ed i pila sollevati, che uscivano dallo spazio tra uno scudo e l'altro
con una leggera inclinazione di 30º. La seconda linea copriva la prima con gli scudi creando una
tettoia, e da dietro si preparavano a scagliare i pila. Questa formazione era utile per
difendersi, ma risultava lenta da applicare, praticamente immobile e debole sui fianchi e sul
retro. Era una formazione difensiva da usarsi in caso di carica diretta, dato che perdeva
qualunque validità tattica durante un'offensiva.
Nello stabilire quale fosse il corretto ordine di marcia delle singole unità che
componevano un'armata: la fanteria ausiliaria era mandata in avanscoperta; seguiva l'avanguardia
composta da truppe legionarie, appoggiate da un corpo di cavalleria; dietro loro alcuni
legionari muniti di attrezzi per la costruzione dell'accampamento al termine della giornata di
marcia; seguivano gli ufficiali ed il generale con scorta armata e guardia del corpo nel caso
dell'imperatore (si trattava della guardia pretoriana); ancora un gruppo di legionari e
cavalieri; poi muli carichi di armi da assedio smontate, oltre a bagagli ed alimenti; seguivano
altre legioni, eventuali forze mercenarie o di popoli clienti; e chiudeva la retroguardia
composta da un grosso contingente di cavalleria. Questa la descrizione che fa Giuseppe Flavio
dell'armamento che utilizzava l'esercito romano, durante la prima guerra giudaica (66-74).
Centocinquant'anni più tardi, al tempo di Massimino Trace (nel 238), Erodiano racconta che
l'Imperatore romano era deciso a marciare su Roma per reprimere la rivolta di Pupieno e
Balbino, con un ordine di marcia a forma di grande rettangolo, ponendo il bagaglio pesante,
gli approvvigionamenti ed i carri al centro della formazione, ed infine prendendo lui stesso il
comando della retroguardia. Su ogni fianco marciavano gli squadroni di cavalleria, truppe
di Mauri armati di giavellotto e di arcieri orientali. L'imperatore condusse, inoltre, con sé
anche un consistente numero di ausiliari germani, i quali furono posti all'avanguardia, primi a
sopportare gli assalti di un eventuale nemico. Questi uomini estremamente selvaggi e audaci,
risultavano molto abili nelle fasi iniziali della battaglia e, comunque, sacrificabili.
Certamente meglio loro che le legioni di cittadini romani.
Al termine della giornata era costruito un accampamento da campagna, per poter soggiornare la
notte, protetti da eventuali attacchi notturni dei nemici della zona.
Questa la descrizione che fa Giuseppe Flavio di un tipico accampamento di marcia, durante la prima guerra giudaica (66-74):
I nemici non possono coglierli di sorpresa. [I Romani], infatti, quando entrano in territorio nemico non vengono a battaglia prima di aver costruito un accampamento fortificato. L'accampamento non lo costruiscono dove capita, né su terreno non pianeggiante, né tutti vi lavorano, né senza un'organizzazione prestabilita; se il terreno è disuguale viene livellato. L'accampamento viene poi costruito a forma di quadrato. L'esercito ha al seguito una grande quantità di fabbri e arnesi per la sua costruzione.Giuseppe Flavio aggiunge che all'interno vi sono tutta una serie di file di tende, mentre all'esterno la recinzione (vallum) assomiglia ad un muro munito di torri ad intervalli regolari. In questi intervalli vengono collocate tutta una serie di armi da lancio, come catapulte e baliste con relativi dardi, pronti per essere lanciati.
Nelle fortificazioni si aprono quattro porte, una su ciascun lato, comode per farvi transitare sia animali da tiro, sia per l'utilizzarle in sortite esterne da parte dei soldati, in caso di emergenza, essendo le stesse molto ampie. L'accampamento, quindi, è intersecato al centro da strade che s'incrociano ad angolo retto (via Praetoria e via Principalis). Nel mezzo vengono poste le tende degli ufficiali (quaestorium) e quella del comandante (praetorium), che assomiglia a un tempio. Una volta costruito, appare come una città con la sua piazza (forum), le botteghe degli artigiani e i seggi destinati agli ufficiali dei vari gradi (tribunal), qualora debbano giudicare in occasione di qualche controversia. Le fortificazioni esterne e tutto ciò che racchiudono vengono costruite molto rapidamente, tanto numerosi ed esperti sono quelli che vi lavorano. Se è necessario, all'esterno si scava anche un fossato profondo quattro cubiti (pari a quasi 1,8 metri) e largo altrettanto.Una volta costruito l'accampamento, i soldati si sistemano in modo ordinato al
suo interno, coorte per coorte, centuria per centuria. Vengono, quindi, avviate tutta una serie
di attività con grande disciplina e in sicurezza, dai rifornimenti di legna, di vettovaglie e
d'acqua; quando ne hanno bisogno, provvedono ad inviare apposite squadre di exploratores nel
territorio circostante.
Nessuno può pranzare o cenare quando vuole, al contrario tutti lo fanno insieme. Sono poi gli
squilli di buccina ad impartire l'ordine di dormire o svegliarsi, i tempi dei turni di guardia,
e non vi è operazione che non si conduca a termine senza un preciso comando. All'alba, tutti i
soldati si presentano ai centurioni, e poi questi a loro volta vanno a salutare i tribuni e
insieme con costoro, tutti gli ufficiali, si recano dal comandante in capo. Quest'ultimo, come
consuetudine, dà loro la parola d'ordine e tutte le altre disposizioni della giornata.
Quando si deve togliere l'accampamento, le buccine danno il segnale. Nessuno resta inoperoso,
tanto che, appena udito il primo squillo, tolgono le tende e si preparano per mettersi in
marcia. Ancora le buccine danno un secondo segnale, che prevede che ciascuno carichi rapidamente
i bagagli sui muli e sugli altri animali da soma. Si schierano, quindi, pronti a partire. Nel
caso poi di accampamenti semi-permanenti, costruiti in legno, danno fuoco alle strutture
principali, sia perché è sufficientemente facile a costruirne uno nuovo, sia per impedire che il
nemico possano utilizzarlo, rifugiandosi al suo interno.
Le buccine danno un terzo squillo, per spronare quelli che per qualche ragione siano in ritardo,
in modo che nessuno si attardi. Un ufficiale, poi, alla destra del comandante, per tre volte
rivolge loro in latino, la domanda se siano pronti a combattere, e quelli per tre volte
rispondono con un grido assordante, dicendo di esser pronti e, come invasati da una grande
esaltazione guerresca accompagnano le grida, alzando le destre.
I Romani generalmente si basavano su vari metodi in battaglia, che adeguavano in base al nemico ed al terreno dello scontro. Nel combattimento in campo aperto, la cavalleria era solitamente posizionata alle "ali". Le legioni erano posizionate nella parte centrale dello schieramento in triplex acies (tripla linea, ed in rari casi in duplex acies ovvero su una doppia linea), poiché come fanteria pesante, dovevano reggere lo scontro frontale delle unità nemiche. Erano protette alle spalle dall'artiglieria e da quelle truppe ausiliarie di fanteria specializzata nel lancio di dardi, frecce, ecc. (come arcieri, frombolieri, lanciatori in genere). Questa seconda linea serviva a decimare il nemico prima ancora che potesse prendere contatto con l'armata romana (come ben illustrato nel film de Il Gladiatore). Alle spalle dell'esercito schierato, magari su un promontorio, la guardia pretoriana e l'Imperatore stesso. Era necessario vi fosse un forma di sinergia tra le diverse unità da combattimento: la combinazione di legioni e truppe ausiliarie (cavalleria, fanteria leggera e truppe di tiratori), conferiva ai Romani una superiorità tattica quasi su ogni tipo di terreno e contro qualunque tipo di avversari.
Questo genere di tattica sembra sia stata adottata per far fronte alla formazione a cuneus delle popolazioni germaniche del nord Europa. Non sappiamo a quando si deve il suo primo impiego. Possiamo immaginare sia avvenuto durante le prime campagne in Germania sotto Augusto e Tiberio, oppure nei secoli successivi, dopo la grande invasione della metà-fine del II secolo (al tempo degli Antonini), come ci tramanda Aulo Gellio, scrittore di quest'ultimo periodo. Tale formazione prevedeva una disposizione "a tenaglia", a forma di "V" ad angolo acuto, con le estremità avanzate, pronte ad avvolgere la formazione "a cuneo" che all'interno vi si infilava. Questo genere di schieramento è menzionata anche da Ammiano Marcellino durante la guerra condotta da Giuliano contro gli Alamanni, poco prima dello scontro decisivo di Argentoratae del 357.
Nel compiere un assedio le tecniche utilizzate non erano molto dissimili da
quanto abbiamo visto nel periodo precedente (dopo la riforma di Mario). Anche in questo periodo
furono utilizzate macchine, scale, torri per la scalata o la demolizione delle mura nemiche, sia
unità di artiglieria pesante come baliste (affidate ai cosiddetti ballistarii), ecc. per colpire
gli assediati da lontano.
Spesso prima di cominciare un assedio, era eretto lungo l'intero percorso un Agger, ovvero un
fossato ed un terrapieno a volte sormontato da una palizzata, per bloccare il nemico
internamente, ed uno esternamente per difendersi da eventuali attacchi di nemici accorrenti in
aiuto degli assediati. Era inoltre usata comunemente, una volta sfondata una porta della
cittadella assediata, o per avvicinarsi a strutture fortificate evitando frecce e proiettili
vari che lanciavano i difensori, la celebre formazione a Testuggine, così chiamata poiché i
legionari posizionavano gli scudi affiancati l'uno all'altro ovunque, sia lateralmente, sia
sopra la testa, creando un gruppo compatto completamente protetto. Tra i principali assedi di
questo periodo ricordiamo quello di Iotapata del 67, Gerusalemme del 70 e di Masada
del 73.
Nel caso di guerriglia con popolazioni che tendevano ad evitare lo scontro diretto (come le tribù spagnole o alpine dei primi anni del principato di Augusto), le cui risorse e beni risultavano non fissi, o per lo meno non concentrati in un solo punto, era preferibile l'impiego, non tanto delle legioni, quanto quello delle più agili e maggiormente adatte, unità ausiliarie.