Le strade romane erano pensate per durare a lungo riducendo al minimo la manutenzione. Perottimizzare le distanze i Romani cercavano di costruire quando possibile strade rettilinee e nelle zone pianeggianti questa regola veniva seguita sistematicamente; quando questo non era possibile, perché avrebbe comportato salite molto ripide, impraticabili per i loro pesanti carriaggi, vennero costruite alternative più lunghe, ma meglio percorribili dai veicoli. Essi per tenersi al riparo dalle inondazioni evitavano comunque di percorrere i fondovalle e le rive dei fiumi, mentre nelle zone più impervie, come i valichi alpini, anche le comode vie lastricate lasciavano il posto a semplici mulattiere.






groma







Galleria del furlo

Montagna Spaccata a Capua
Ponte di Alcántara
Ponte Rotto di Roma





Ponte di Cesare sul Reno

Costruire una strada


La costruzione e la manutenzione delle strade ebbe le sue magistrature e una sua organizzazione con precise regole per l'impianto dei cantieri, l'arruolamento e la disciplina delle maestranze, i rilievi del terreno e lo studio del regime delle acque. Nonostante i resti di strade romane siano numerosi, solo poche e frammentarie fonti antiche ne descrivono le tecniche costruttive. In assenza di testi normativi le informazioni disponibili sono riportate in testi di scrittori quali Vitruvio, Plinio il Vecchio e soprattutto del poeta Publio Papinio Stazio che nel poema in versi Via Domitiana, compreso nel IV libro delle Silvae, descrisse in maniera dettagliata le fasi di costruzione di una strada, nel 95 d.C., con riferimento appunto alla via Domiziana.

Dopo che i progettisti avevano stabilito dove in linea di massima avrebbe dovuto passare la strada, i mensores con accurate misurazioni individuavano il punto preciso per la costruzione, collocando dei pali lungo una linea chiamata rigor e, avvalendosi della groma, strumento usato per tracciare angoli retti, definivano con precisione la griglia del piano stradale. Entravano poi in scena i libratores che scavando fino allo strato di roccia, o fino a uno strato solido, valutavano la natura del terreno e stabilivano la tecnica costruttiva da impiegare.

A questo punto iniziava l'opera di costruzione vera e propria, tracciando dapprima con un aratro due solchi paralleli per delimitare la carreggiata, nei quali erano collocate delle pietre poste in verticale per contenere la massicciata. Veniva poi scavata una trincea sul cui fondo erano sistemate grosse pietre legate con cemento che costituivano la base (statumen) su cui veniva collocato un triplice strato di materiali sovrapposti e compressi: ad un primo strato di conglomerato di pietre e frammenti di mattoni (rudus o ruderatio) legati con calce che aveva lo scopo di drenare le acque, ne seguiva uno intermedio di brecciame costipato e compresso (nucleus) ed infine la pavimentazione (pavimentum) con pietre, blocchi di basalto o lastre squadrate, a seconda della disponibilità locale, perfettamente incastrate tra loro e collocate in maniera da garantire lo scorrimento e la raccolta delle acque in canalette di scolo laterali. La larghezza della carreggiata doveva permettere l'incrocio di due carri, e andava normalmente da 4 a 6 m. Le strade potevano avere ai lati marciapiedi riservati ai pedoni, in terra battuta (margines) o lastricati (crepidines). Questi ultimi, presenti solo nelle strade più importanti, potevano avere una larghezza anche di 3 m.




Ingegneria romana

Per superare gli ostacoli rappresentati da corsi d'acqua, zone acquitrinose e montagne, venivano realizzate complesse opere d'ingegneria. I Romani attuarono il taglio di colline e realizzarono gallerie, costruirono ponti e terrapieni di sostegno lungo i percorsi a mezza costa.

Nei terreni torbosi e paludosi si costruiva un piano stradale sopraelevato: dopo aver segnato il percorso con dei pali si riempiva lo spazio fra di essi con una massicciata di pietre e malta cementizia, innalzando il livello stradale fino a 2 metri sopra la palude. Nel caso di grandi masse rocciose che ostruivano il cammino, dirupi, terreni montuosi o collinari si ricorreva spesso a sbancamenti e gallerie, interamente scavate a mano. Numerosi gli esempi di tagli nei monti per rendere più agevole il valico, come la Montagna Spaccata lungo la via da Pozzuoli a Capua, in Campania. Nel I secolo, sull'Appia, per evitare il faticoso valico dell'arce di Terracina, venne tagliata la rupe di Pisco Montano aprendo una via più comoda verso la piana di Fondi.
Le gallerie, chiamate con voce greca latinizzata cryptae, vennero realizzate soprattutto per scopi militari, come la cosiddetta grotta di Cocceio (o grotta della Pace), fatta aprire da Marco Vipsanio Agrippa per creare un collegamento fra la base navale d'Averno e il lido di Cuma, al tempo della guerra fra Ottaviano e Sesto Pompeo, e la Crypta Neapolitana aperta nella collina di Posillipo, descritta da Seneca e molti secoli dopo da Alexandre Dumas ne il Corricolo. Nel I secolo, al tempo di Vespasiano, lungo la via Flaminia venne scavata la galleria del Furlo.




Ponti

Tra le infrastrutture stradali i ponti romani, per le loro tecniche costruttive, sono tra le più interessanti. I ponti venivano costruiti in legno o in pietra, a seconda delle necessità e delle possibilità di approvvigionamento o economiche. I ponti in legno erano usati per attraversare piccoli corsi d’acqua oppure erano ponti provvisori per scopi militari. Questi ultimi poggiavano su piloni infissi nel letto del fiume, oppure su basamenti in pietra. Tra questi è ricordato il ponte di Cesare sul Reno.
Spagna, ponte di Alcántara Nella costruzione dei ponti in pietra, che utilizzavano l'arco come struttura di base, i Romani rivelarono una grande capacità costruttiva. Molti di essi sopravvivono intatti e sono considerati ancora oggi un modello di ingegneria idraulica. Tra i più famosi il ponte di Tiberio a Rimini, a cinque arcate, il ponte di Alcántara sul Tago, entrambi tra i meglio conservati, e quello di Traiano sul Danubio, alle porte di ferro, al confine tra le attuali Serbia e Romania, progettato da Apollodoro di Damasco e di cui restano pochi ruderi.
I primi ponti vennero costruiti in età repubblicana per attraversare il Tevere in ambito urbano: risalgono a quell'epoca il ponte Emilio o Ponte Rotto (179 a.C.), il ponte Milvio (109 a.C.), il ponte Fabricio (62 a.C.), ancora esistente. In età imperiale inizia la costruzione dei primi ponti sulle grandi vie di comunicazione: il già citato ponte di Tiberio a Rimini e il ponte di Augusto a Narni, anch'esso a cinque arcate, di cui quella centrale alta 32 m sul letto incassato della Nera, entrambi sulla via Flaminia, il ponte di Ascoli Piceno, a due archi, sulla via Salaria e quello di Domiziano alla foce del Volturno, di cui resta una testata in laterizio, inglobata nel castello medioevale di Castel Volturno.




Costruzione di un ponte di legno

La struttura militare in legno per permettere il passaggio del fiume Reno, fu concepita da Cesare nel corso delle due campagne contro i popoli germanici, durante la conquista della Gallia. Il prof. Francesco Maria Pellegrini in un suo libro del 1898 analizzò la struttura del ponte costruito da Giulio C., così come descritta nel libro IV° del “de bello gallico”, dandone una propria interpretazione. Personalmente, avendo avuto la fortuna di aver “dovuto” studiare il latino, ho preferito leggere la descrizione della costruzione del ponte (in realtà furono due) direttamente da Giulio C. nel suo “De bello gallico”. Ovviamente semplificheremo la descrizione tecnica, ed avendo avuto l’accortezza di tradurre le misure antiche espresse in piedi, le convertiremo in centimetri e metri per una maggiore godibilità ed ammirazione della grandiosa impresa tecnica compiuta in soli 10 giorni! Ecco come fu costruita quella meraviglia lignea e quali erano i singoli elementi strutturali che la componevano. Gli elementi fondamentali furono i PILASTRI – due di circa 45 cm di diametro, lunghezza circa 9-10 metri, collegati a coppia, distanziati di cm 60, appuntiti ad una estremità ed infissi inclinati secondo la corrente nel letto del fiume, con l’ausilio di battipali. Di fronte e a valle, a 10 metri dalla prima coppia si infiggeva una seconda coppia nel letto del fiume , sempre inclinata, ma contro corrente. Tra le due coppie citate, dopo la loro infissione, alla loro sommità fu posto un TRAVERSO a sezione quadra di cm 60x60, lungh. 5 metri, con la funzione di collegamento delle coppie di pilastri, bloccato dall’inserimento di CAVIGLIE, quindi senza l’uso di chiodi metallici. Tra le due coppie opposte di pilastri si ponevano due traverse inclinate ed incrociate, sez. cm 30x30, con legature di corda, con la funzione di irrigidimento del telaio in via di formazione. Dopo la posa di più elementi delle dette coppie di pilastri-traverso, si collegavano tra di loro le stesse con TRAVI LONGITUDINALI, sez. cm 60x60, lunghezza 12 metri, con la funzione di collegamento tra le coppie di pilastri e la successiva posa del piano di calpestio del ponte. Sulla struttura così approntata si montava del TAVOLAME, sez cm 40x5, lunghezza metri 4, che costituiva il piano di calpestio del ponte. A valle altri PALI OBLIQUI, diametro cm 45, infissi nel letto del fiume e collegati con legature alle coppie di pilastri, rafforzavano l’azione contro lo svellimento delle strutture dovuto alla azione della corrente. A monte altri PALI VERTICALI, diametro cm 45, infissi verticalmente innanzi alle coppie di pilastri e non collegati ad essi, evitavano danni che eventuali oggetti galleggianti, trasportati dalla corrente, cozzassero contro le le pilastrature del ponte. Riassumiamo le caratteristiche costruttive e di ambiente: Il ponte era lungo circa 500 metri ed il piano carrabile largo metri 4. Giulio Cesare ne costruì due, uno nel 55 a. C., l’altro nel 53 a.C., in due località distanti circa due chilometri tra di loro ed in prossimità di Coblenza. Uno fu demolito dopo tre settimane, l’altro fu fortificato e divenne permanente. Giulio Cesare scrisse che impiegarono dieci giorni per erigerlo, ma non precisa il numero di legionari impiegati. Ampia documentazione ci è pervenuta perché ogni personaggio delle epoche passate (e presente) ne ha rilevato l’incredibile ingegno e grandezza: Andrea Palladio, Architetto, ce ne dà una sua versione, a ds; F.M. Pellegrini, nel 1898, traducendo il “de bello gallico”, ne dà una sua versione costruttiva molto interessante; Altri, tra pittori ed illustratori, nonché lo scrivente, hanno voluto dare la loro versione grafica. Come si potrà rilevare, le raffigurazioni non illustrano la stessa soluzione realizzata; ma tutti l’hanno voluta interpretare in omaggio alla capacità progettuale e tecnica ideata da Giulio Cesare circa 2100 anni fa; la pragmaticità, la logica e l’intelligenza del progetto, trascurando poi l’incredibile tempo di realizzazione, sarebbe anche ai nostri giorni ben difficilmente concepibile e attuabile.